Giacomo
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"Stato di vigilanza" di Gianfranco Fabbri
Supponevo, aprendo il nuovo libro di Gianfranco Fabbri ("Stato
di vigilanza", Manni Editore) che forse non avrei ritrovato quella
particolare atmosfera che mi aveva colpito leggendo "Album italiano"
(Campanotto, 2002), la felicità narrativa, il viaggio anche metaforico,
la familiarità dei luoghi, il lirismo un pò periferico,
il treno anche come occhio che scorre sul paesaggio, che richiama in
certi punti topici, come ebbi a dire, il Giudici di "La stazione
di Pisa", ma anche, direi ora, su un altro versante letterario,
il Cassola (qualcuno ricorda Cassola?) di "Ferrovia locale".
Qualche indizio, raccolto in parche anticipazioni in rete, diceva che
lì c'era la serena malinconia di chi perlustra un mondo quasi
disabitato ma nostro, riconoscibile, umanizzato, in qualche modo parte
della nostra identità anche storica; qui c'è il riconoscimento
per indizi del mondo come teatro del dolore, della difficoltà
del vivere e dei rapporti; e c'è il conseguente tentativo, che
è l'impresa principe della poesia, di dare un senso a tutto questo
con la parola, farne una sua rivendicazione di verità, come direbbe
Gadamer. Del resto, Gianfranco ci avverte: ”Si riparte secondo
una logica diversa”, fin dall’inizio del libro.
C'è questo, ma anche molto di più, un libro complesso
pur nella sua ampia leggibilità, come un marmo percorso da venature
scure, che sono tòpoi, isotopie, ricorrenze. Per abitudine leggo,
quasi tutto d'un fiato; poi rileggo. Il primo impatto è un suggestivo
connubio di pathos/patologia, il primo quasi nella sua accezione classica,
aristotelica, di sofferenza o dolore, ma anche e contemporaneamente
di artificio retorico di persuasione, di elemento tragico che coinvolge
il lettore; la seconda nel senso di disagio, ma anche e insieme di accostamento
a questa sofferenza o malessere anche attraverso la parola, il discorso,
la cognizione, appunto, del dolore.
E' difficile sfuggire a questa sensazione, ma anche al sospetto che
essa sia fuorviante, sotto certi aspetti. Tuttavia, già il titolo
stesso sembra suggerire una qualche voluta ambiguità di significato,
uno stato di vigilanza rivolto certamente al mondo, alla realtà,
agli accadimenti, nel tentativo di tenerli poeticamente sotto controllo;
ma anche una condizione limbica, post traumatica, la veglia di un coma
che non si arrende al rude stream della vita. Mi sono chiesto, da questa
prospettiva, se fosse un caso la ricorrenza abbastanza fitta nel testo
di termini medici o di ambito semantico analogo: non solo coma e stato
di coscienza, presenti in una curiosa ripetizione con varianti di un
stesso testo, ma anche corpo, digestione, morte apparente, sinapsi,
border-line, auscultare, tranquillante, tavor, svenimento, febbre, serenase
e altro ancora. Ma Fabbri è poeta troppo fine per lasciare operare
il caso. Ha semmai la necessità di “chiamare le cose col
nome delle cose” (come dice lui stesso e nota N. Vacca nella prefazione);
oppure di proclamare, in maniera ellittica, una fisicità, “indagare
il proprio e l’altrui corpo, le cellule, le molecole del nostro
animo” (G.R.Manzoni su L’Attenzione). Può darsi,
ma credo ci sia altro: ovvero un corpo/identità e un corpo/memoria,
molteplici e sfuggenti come la poesia. In versi come questi, molto meno
ascrivibili a una tradizione di quello che potrebbe far comodo, l’io
(ma anche il tu impersonale) sembra diventare un puro fatto grammaticale,
se lo si confronta con un corpo sistema di segni, radicato nel corpus
testuale a proclamare un’identità che è di uno (il
poeta) e di molti, con un superamento deciso di un certo tipo di lirismo.
E inoltre questa scelta permette a Fabbri, quando lo ritiene opportuno,
di praticare un vero rovesciamento del dato biografico, su almeno due
piani: uno quando, come girando un interruttore, passa da un tu maschile
ad un tu eteronimo femminile, con uno sguardo che comprende pietosamente
l’umano nella sua interezza (esemplare - e bella - in questo senso
“Da questa riva...”, nella sezione “Presa di posizione”).
L’altro quando sembra assumere su di sé, empaticamente,
il dolore, la sopportazione e la sublimazione del male che (ipotizzo)
appartiene in realtà a qualcuno a lui prossimo (e qui non ci
sono esempi specifici da fare, salvo le diffuse isotopie medicali che
rimandano a dolorose esperienze) o a quella matrice femminile cui accennavo
prima. C’è naturalmente moltissimo privato in questo, e
una conseguente grande generosità nell’offrirlo, una intimità
affettuosa con il lettore, proprio perché, io credo, una poesia
dell’umano come questa non può essere del tutto “riservata”.
E poi, si diceva, c’è un corpo/memoria, un tramite con
la psiche o l’anima o i nostri sogni o quella cosa indissolubile
che siamo: “Hai deciso di auscultare / la parte del cervello /
che più conserva l’ambiente / nell’utero, di quando,
/ all’infinito, / ricalcolavi il sogno dei sorrisi.” E ancora:
“Forse le tue profondità / non ti rispondono – non
sanno / indicarti la strada / che ti conduca al panico / dove potresti
/ di fede infettarti a poco a poco”. E anche “Le tue ossa
stanotte hanno parlato a lungo dei loro sogni / tu le hai ascoltate
/ con la premura di una madre”. Qui insomma il corpo è
ancora luogo di significati, ma può anche (o rischia di) diventare
un luogo di dimissioni, di infrazione psichica, inabitabile, alienato,
come in “Oggi mi sento spostato in avanti”, ma in maniera
ancora più incisiva nel poemetto, ironico e tragico, di “Piccole
prose della sinapsi”. Qui, sopratutto nel nucleo centrale, si
rappresenta addirittura un teatro dell’espropriazione di sé,
giocato proprio sul progressivo passaggio dall’identità
all’alterità, che non può che richiamare significativamente
alla memoria il Gregorio Samsa della kafkiana “Metamorfosi”.
Entrambi i testi citati sono compresi nella sezione “Stato di
vigilanza” che dà titolo al libro: a mio avviso, insieme
a “Presa di posizione”, quella più decisamente innovativa
per stile e contenuti rispetto alle prove precedenti di Fabbri. C’è
anche, infine, la fine, quella del testo che chiude il libro (“Hai
venduto il tuo sistema nervoso. / L’hai dato / via per poco, come
se fosse / qualcosa di funesto da tenere”), ma anche la piccola
morte orgasmica (“Il diaccio venire su dal circolo profondo”,
presente in due versioni), o la surreale opzione suicidale di “Sei
entrata con la pistola...”, nella sezione “Presa di posizione”.
Insomma, in questa ipotesi di lettura il corpo sembra assumere una posizione
predominante, sebbene non sia mai o solamente un oggetto o un campo
di battaglia (per quanto sia trasversalmente presente anche questo accenno
tematico), ma direi un mezzo espressivo come potrebbe esserlo per un
attore o un performer, un autentico linguaggio, o meglio ancora un modello
di interpretazione del mondo.
Non vorrei però con queste note dare l’impressione che
tutto ruoti intorno a questa lettura, e perciò avevo parlato
di sensazione forse fuorviante. Perchè poi le ragioni della felicità
di una lettura che attraversa la complessità del libro, la sua
del tutto apparente discontinuità risiedono anche altrove. Per
esempio, nelle scelte stilistiche, sempre fortemente significanti rispetto
al testo e per questo così diversificate: la struttura nettamente
narrativa di “Piccole prose della sinapsi”, in cui il dettato
esige di svincolarsi dalle limitazioni del verso, per quanto libero
possa essere, raggiungendo proprio in questo modo un alto grado di comunicazione
poetica; la prosa intercalata da un denso recitativo in “Presa
di posizione” (ma anche altrove), espressa in brani che potrebbero
ottimamente essere detti a due voci; ma anche tutto il tessuto connettivo
dei brevi componimenti in cui si esplicano piccole epifanie, oggetti
rivelazione, e in cui riaffiora un lirismo deciso (“Il geranio,
di questi tempi, / profuma tutto intorno. // Rosso, accoglie legazioni
di insetti.”, ma vedi anche la bella “Ci meritiamo, ogni
mattino…”) e una musica interna che Fabbri sa egregiamente
modulare, con la necessaria leggerezza per sottrazione (v. “Al
fiore è candido l’intorno…”). Direi per concludere
(ma certo il ragionamento su questo bel libro non è esaustivo),
che certo si possono chiamare “le cose col nome delle cose”,
e che forse questo può essere fatto con le stesse parole che
“escono come incidenti dalla bocca, senza lasciare un senso”,
ma per fortuna poi il poeta si incarica di risolvere al meglio questa
apparente contraddizione.
Stato di vigilanza, Gianfranco Fabbri, Manni Editori