Pangrammi dell’esistenza.
Su “La mania per l’alfabeto” di Marco Candida
di Luciano Pagano.
“The
quick brown fox jumps over the lazy dog“, questa frase viene utilizzata
nei test per le macchine da scrivere in un ambito analogico che sembra
così lontano e che invece fa ancora parte del presente, o ancora
quando c’è da testare la bellezza e la versatilità
di un nuovo font nei programmi di grafica e videoscrittura. Cosa c’entra
questa frase con il romanzo d’esordio di Marco Candida, “La
mania per l’alfabeto” (Sironi Editore, collana indicativo
presente, €14)? La particolarità di questa frase di senso
compiuto - dove una volpe marrone si beffa di un cane pigro - sta nel
fatto che in essa sono contenute tutte e ventisei le lettere dell’alfabeto,
una frase simile viene definita come pangramma. Nel romanzo di Marco
Candida secondo me avviene qualcosa di simile, si cerca una risposta
ad un quesito filosofico e allo stesso tempo narrativo, quello di dare
un ordine al mondo attraverso il linguaggio senza perdersi in quest’ordine
che nel frattempo si è anche concretizzato come ricerca di sistemazione/risoluzione
della vita del protagonista.
Nel cercare quest’ordine vengono dispiegate con maestria tutte
le emozioni, tutti i generi, tutti i percorsi letterari percorribili,
il che non deve far credere che La Mania sia un’opera enciclopedica,
anzi è la gamma degli stimoli che offre la lettura di questo
testo che appare sotto la cifra dell’infinità. Michele
è un giovane alle prese da anni con la scrittura, emerge qui
un primo elemento, non si tratta della scrittura del capolavoro o dell’opera
a cui sta lavorando, la scrittura per Michele assume il carattere della
scrittura tout court, la scrittura per la scrittura, una scrittura che
soltanto inizialmente crediamo essere affidataria di un’interpretazione
del mondo per poi scoprire il suo ruolo centrale, quello di unico strumento
per attingere alla Verità. Una scrittura che si dissemina in
miriadi di altre scritture, tutte a loro modo giustificate dall’assunto
di fondo: essere descrizione di quella vera realtà rispetto alla
quale il resto delle descrizioni che ci vengono propinate altro non
sono che ‘notizie’, ‘velo di maya’, ‘rappresentazioni
di ombre sulle pareti della caverna’. Questa, tuttavia, è
una falsa interpretazione. La scrittura diviene in questo romanzo un
oggetto malleabile e riparatore, Michele è ossessionato dalla
scrittura a tal punto da perdere il contatto con la realtà. Ci
sono due realtà, Savemi (la sua ragazza) e il Lavoro, che cercano
di assisterlo, la prima con una certa tolleranza e la seconda con il
pragmatismo scellerato e disperato imposto dal lavoro, con le consuetudini
e il delicato bilanciamento dei rapporti tra colleghi; entrambe le realtà
dovranno espellere da sé Michele se vorranno continuare a insistere
nelle loro certezze.
Al termine del romanzo si raggiungerà un punto di mezzo, quieto
come l’occhio del ciclone. “La mania per l’alfabeto”
è una room-novel, un romanzo che racconta gli spazi chiusi e
angusti, la scatola cranica, i pensieri, i racconti - le carabattole
- che amplificano l’immaginario della paranoia su soglie altissime,
alcuni di quelli che sono seminati nel romanzo fanno da controparte
teorica di ciò che sta accadendo al protagonista, sviscerando
uno stato d’animo in particolare.
“Michele, pensa, si ritrova inscatolato in
tante stanze, proprio come tutti, e compie le sequenze di azioni di
tutti, ha le emozioni di tutti, le stesse relazioni di tutti - le
stesse relazioni, o meglio, di chi non sa tenere relazioni - e non
può che raccontare storie che potrebbe raccontare chiunque:
nessun mondo diversissimo, solo mondi ugualissimi su esperienze ugualissime.
Soltanto la percezione del mondo e delle esperienze sono diverse,
infettate dalla scrittura”
Quando il protagonista si trova alle prese con la sua casa e la sua
famiglia le cose non cambiano, la sua è un’esistenza appartata,
un tentativo di riprendersi dagli sconvolgimenti che sono avvenuti nella
sua vita recente. Un particolare episodio (lo smarrimento di un libro),
riporterà Michele ad un contatto con le cose, mitigando le sue
ossessioni. Fino a quel momento Michele è scrittura, Michele
è nei libri che legge, come se gli oggetti-libri fossero riusciti
ad annichilirlo, interessante la considerazione a proposito del lettore-forte,
che sarebbe il lettore che compra libri ogni giorno per poi leggerne
tre o quattro in un anno. A mio avviso le pagine più belle sono
proprio quelle contenenti le considerazioni sulla percezione che abbiamo
del mondo, filtrata com’è dall’informazione giornalistica
e mediatica. Marco Candida, giovane autore nato nel 1978, ha avuto un
coraggio raro, quello di scrivere un libro che mette a nudo se stesso
e nello stesso tempo la scrittura come pratica individuale, un’analisi
sulla scrittura così come poteva essere intesa nel Medioevo,
con la filtrazione di filosofia e psicoanalisi, laddove invece un pensiero
osmotico potrebbe rintracciare assonanze con i romanzi di Albert Camus,
per il riferimento al senso di claustrofobia morale oppure alle riflessioni
filosofiche sulla scrittura di Carlo Sini, cui si aggiunge un vago senso
di delirio che a volte emerge da alcuni passi per effetto dell’esattezza
e dell’accumulazione di immagini. Marco Candida dispone di una
tavolozza incredibilmente varia che si è concretizzata in un
ottimo esordio.

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