Grenar
“Tana per la ragazza dai capelli a ombrellone”
Dire e creare
Quando
uno scrive, scrive di sé: nel calderone delle parole versa la
propria essenza, grezza, e aggiunge calore per trasformarla. Usa l'essenza,
non il vissuto, come a dire lo spirito, non la materia. Il lettore,
altro ingrediente della trasformazione (se non pietra filosofale), non
dovrebbe sapere se quello che legge sia spirito o materia. La fonte
unica di informazioni sul testo dovrebbe essere il testo, e basta.
Ma non sempre è così. Ci sono romanzi del cui spazio esterno
sappiamo sin troppo. La vita di Dostoevskij, le lettere di Wilde, i
drammi familiari di Pirandello. Note, appunti, biografie, psicanalisi
del testo, foto, gossip, rivelazioni. Hanno un bel daffare gli scrittori,
almeno alcuni, a dire che la loro è una sub-creazione, che uno
scrittore dovrebbe morire subito dopo aver prodotto il testo, che nel
testo non esiste alcun passaggio segreto che porti alla mente dello
scrittore. La lettura pura del testo narrativo è una attività
difficile.
A meno che l'autore non si nasconda nel suo stesso inchiostro, come
un calamaro. Ho letto “Tana per la bambina dai capelli a ombrellone”,
romanzo di Monica Viola pubblicato in rete da Vibrisselibri [1], e sono
arrivato alla fine senza mai essermi chiesto se quello che stessi leggendo
fosse vero o meno. Bene, mi sono sentito soddisfatto. Un lettore è
felice quando vive nel tempo del libro, col suo respiro, nel suo altrove.
Mi sarei potuto arrovellare: quella bambina che racconta in prima persona
è l'autrice?; quelle che racconta sono balle o verità?;
davvero è stata costretta a soddisfare le voglie sessuali dei
fratelli maggiori?
Ho fatto suonare un campanello d'allarme. Sì, c'è un tema
forte in questo romanzo, ma non è il centro della narrazione,
anzi: per come viene trattato sembra un sasso uguale agli altri. Scandalo,
perversione, tabù, incesto: roba dura, materia narrativa scottante,
ma che appartiene ad altri scrittori. [2] La priorità di quest'opera
è l'urgenza di raccontare.
Una bambina dai capelli a ombrellone
La storia, nuda, è cruda. La narratrice, che non dice mai il
suo nome, racconta la propria vita, vent'anni a partire dalla sua infanzia,
senza tacere nulla. Ultima di otto fratelli e sorelle, conosce solo
la sottomissione: suo padre educa all'antica, con le mani e con la paura;
sua madre cerca di darle affetto ma ne sembra incapace; le sue sorelle
sono lontane e inarrivabili; i suoi fratelli la tengono alla catena,
e due di questi abusano di lei. Vita e morte intrecciate assieme. La
bambina è affamata di vita, così tanto che subisce ogni
violenza senza piangere, e questo è uno dei misteri del romanzo.
L'adolescenza è ancora più strana. L'insicurezza di “lei”
è la causa di mille bugie, sbagli, fughe, tentate rapine d'affetto
(si attacca alle persone, tanto da essere soprannominata “appiccicume”).
Per farsi accettare, “lei” diventa comunista, socialista,
ragazza per bene, ragazza perduta, si fa seguace di mille mode e culture,
che indossa e cambia come abiti. Un camaleonte per necessità.
Questi vent'anni di vita sono raccontati di corsa. È come leggere
un concentrato di diari. Tutto il superfluo è già tolto.
Su ogni cosa, la morte come ossessione e realtà. La morte della
madre dopo un lungo coma, la morte della nonna, la fine delle amicizie,
l'amore che fa male, l'addio alla verginità (quest'ultimo avviene
in totale solitudine e in un modo imprevedibile). La protagonista compensa
gli squilibri della vita con la sua voglia di fare esperienze, tante,
così tante che sembra bulimica, e alcune così pericolose
che rischia di fare una brutta fine.
Correre, correre
Il ritmo del romanzo, elevato al punto di dare l'affanno, è dato
da due velocità incrociate: quella dello stile e quella dello
schema. Lo stile è secco, fatto di frasi brevi e levigate, ma
con una costante ricerca delle parole più efficaci. La rappresentazione
di qualunque evento, sentimento, colore, tende a condensare il senso
in poche lettere, per rappresentare con ordine il caos di una vita.
Esempi: “la riga nera che si è ingoiata il suo bel seno”;
“era una scheggia di un'epoca trapassata”; “parole
col ripieno molle, come me”, “l'uomo che mi ha riparata
è il padre buono”.
Lo schema è: (1) presentimento della disgrazia, (2) disgrazia,
(3) superamento della disgrazia. Si ripete circolarmente, a volte nel
giro di poche pagine -- che corrispondono però ad anni di vita.
Ciò che può sembrare un limite (a chi è abituato
a forme lineari di narrazione) è in realtà la natura “fisica”
del romanzo, la sua tessitura.
C'è in questo schema in tre tempi una necessità del narratore
di vincere le proprie paure… creandole. Raccontare le proprie
disgrazie non per avere pietà in cambio ma per mostrare (a sé
stessi) che ogni cosa è superabile. La sincerità di questo
atteggiamento emerge nella assoluta mancanza di retorica del testo.
Che può anche essere fatto di sole bugie, per quello che importa.
Il dolore può essere ingoiato e ricreato dall'immaginazione,
e così neutralizzato è un antidoto contro la follia, la
depressione, la semplice stanchezza. Una bambina che sogna è
una bambina armata.
Note
[1] Il testo è disponibile qui: http://www.vibrisselibri.net/.
[2] Vibrisselibri pubblica, assieme a “Tana”, il romanzo-verità
“Nenio” di Eugenio De Medio, una cronaca precisa di una
vera violenza subìta dallo scrittore da bambino.