Lucilla Vaglio
Le bianche parole di Alda Merini
Ora non è più tempo di strappi improvvisi, di insonnie
inquietanti, di grate alle finestre, di abbandoni devastanti, di disperazione
senza fondo, di ricordi ossessionanti.
Ora il suo è un tempo maturo, appagato, adagiato sulle forme
di una quotidianità che si dipana tra gesti consueti, vizi incalliti,
oggetti consunti. Ora il suo tempo si è riappropriato di quel
sapore dolcissimo di libertà di cui troppe volte ha dovuto privarsi.
Ora i suoi occhi sono ampi e sorridenti, le rughe non disegnano l’appassire
di un volto, ma assecondano quel piacere sferzante di mostrare un’espressione
solitamente ironica di cui le labbra sono parte dominante, sfacciatamente
laccate rosso sangue.
Ora in lei tutto appare incredibilmente coerente e proporzionato; anche
la sua vistosa collana di perle, e i suoi troppo grandi orecchini di
perle.
Non importa invece il vestito che indossa, non conta se sia troppo leggero
e colorato per il freddo amaro e spinoso di un inverno a Milano; o troppo
caldo e scuro per un liquefatto pomeriggio estivo a Milano. Non le importa
sapere quale sia la stagione. Non ha mai avuto pensieri, lei, per le
stagioni. Del resto, che differenza avrebbe fatto sapere che fuori la
temperatura faceva ribollire le acque dei Navigli quando dentro avrebbe
continuato a farsi avvolgere dalla solita, informe, agghiacciante calda
camicia bianca.
Una camicia “taglia unica, calda d’estate e d’inverno”:
era questo il solo ‘accessorio’ consentito, il solo colore
che era possibile abbinare ai suoi occhi profondi, ai suoi capelli neri
e ribelli, quando senza sapere come, senza sapere perché si ritrovava
tra le mura asettiche del Paolo Pini.
Bianco. Come candore innocenza verginità trasparenza luce.
Bianco. Per alienare annullare annebbiare la memoria, assecondare le
dimenticanze, distorcere le certezze, distruggere le difese, denudare
pensieri, colorare emozioni.
Per dodici anni quella camicia bianca è stata il suo ornamento,
la sua seconda pelle.
O forse l’unica finta pelle che poteva tenersi addosso quando
con infido sarcasmo quotidiano mani estranee e invasive le laceravano
quella vera, quando pupille anonime e deliranti si insinuavano svergognate
in ogni piega della carne, si intromettevano nei segreti della mente,
stanando ogni sensazione, ogni paura, ogni rimpianto, come si stana
una bestia dalla profondità della tana.
Quel luogo è stato il suo Getsemani; lì si è compiuto
il suo sacrificio, ha scontato la morte quando altri si impadronivano
di ricordi, nostalgie, riducevano in brandelli i sentimenti e poi li
sventagliavano tutti infranti davanti a occhi spenti, senza schermi,
quasi come insulti, quasi fossero pene da cui era stato un bene liberarsi,
o passato di cui ci si convinceva a negare l’esistenza.Era quello
il luogo e il tempo del passaggio ad un’altra dimensione dell’essere
e del vivere o dell’annullarsi e del morire, “quando ci
mettevano un cappio al collo/e ci buttavano sulle brandine ignude/in
mezzo a cocci di orrende bottiglie/per favorire l’autoannientamento,/era
in quel momento che sulle fronti madide/compariva il sudore degli orti
sacri/degli orti innominati degli ulivi”.
Se si tendeva la mano per afferrare anche solo un briciolo di pietà,
per riappropriarsi di un ricordo troppo intimo per lasciarlo a chiunque
potesse disumanamente strapparlo via, negli occhi la luce si spegneva,
e ci si doveva abbandonare ad un sonno lunghissimo, forzato, imposto
da altri, o ad un estenuante dormiveglia, a volte più crudele
del sonno stesso.
Al risveglio restava la solita agghiacciante calda camicia bianca, un
soffio di lucidità per farsi rigare il volto da qualche lacrima
e la voglia di non averlo più, un volto.
Allora, forse, dal bisogno di proteggere ciò che resta in vita
della propria identità, di una dignità troppo violata,
nasce quella sorta di vanità di opporre al dolore che rabbuiava
i suoi occhi la luminosità e la morbidezza rassicurante di sfere
giganti con cui si orna ora il volto.
Sarà per questo, forse, che Alda Merini veste di perle. Bianche.
E nasce dall’urgenza di trovare la giusta terapia antidolore,
pur volendolo ricordare in tutto il suo spessore, quell’arte dello
scrivere sul dolore che si nutre, parola dopo parola, della “menzogna
di vita” e che tramite la finzione, lo slancio, l’incanto
della vita supera se stesso, per riprendere forma e sostanza nella poesia,
con quella forza espressiva singolare capace di testimoniare anche il
passato più lesionato.
La memoria non consente di rivivere il passato, ma di ricostruirlo,
perché il passato non si conserva mai qual è stato, ma
si ricrea, si ripropone e si riaffaccia al presente attraverso simboli
personali e sociali.
Sarà per questo, forse, che nei versi feroci e annichilanti con
cui racconta momenti di estraneità dal proprio corpo e dalla
propria anima, Alda Merini ha ricordi di Sud.
Il Sud le è appartenuto, un tempo, e per questo ritorna, come
simbolo di fatica, di privazione, di sacrificio; come simbolo di fughe
e di attese senza nomi.
Ritorna, quel Sud di cui lei un tempo respirò i cieli e poi ne
incontrò gli abissi, nell’attimo più cupo del dolore,
come sollievo onirico, come abbandono alla dolcezza di orizzonti vissuti,
come distacco dal tormento per aggrapparsi a ciò che del tormento
è stato simbolo. Al di là del bene e del male che per
lei è stato il Sud.