Vito Russo: “Un giorno l’altro” di Lino Angiuli
Ho
riletto l’ultimo libro di Lino Angiuli, Un Giorno l’altro,
in una sala d’aspetto di ospedale. L’ho riletto con gusto,
con una voracità divertita e quasi infantile, col sorriso stampato
in faccia, sotto gli sguardi indiscreti dei miei compagni d’attesa.
Perché mi pare che la prima qualità che balza agli occhi
leggendo i versi di Angiuli, sia l’ironia. Quell’ironia
che spesso manca ai poeti “appesantiti”. L’ironia
che gli fa scrivere nel suo dialetto “… allore da’
/ pigghie u sacche e la sporte amiche mi’ / ca ‘nge ne sciame
‘nzìeme tutteddu’ / a ccogghie qualche ottobre de
razze”.
Angiuli è convinto della forza terapeutica della parola poetica,
è evidente. Nei versi di questa raccolta è quasi totalmente
assente la punteggiatura. La sintassi del linguaggio accademico, ufficiale,
giornalistico, va a farsi benedire. Anche il lessico è lontano
dai modelli poetici più scontati, eppure il poeta Lino Angiuli
non rinuncia mai alla comunicazione. Sceglie le sue parole in una cucina,
in un orto, in un armadio impolverato, eppure sa accarezzarle con dolcezza,
restituendo alle stesse dignità non solo letteraria ma umana
anche. E lo fa con una mirabile consapevolezza poetica, mai manieristica.
Ma soprattutto, lo fa con sincerità.
Angiuli non bara, non finge.
Egli recupera un codice etico personale fatto insieme di solitudine
e amicizia, perché “insieme si può fare molto /
ma sopra tutto uno per uno”. Nella campagna trova lo spazio ideale,
tra una margherita, limpidi rosoli, una ventata di scirocco e una quercia
da guardare in faccia ad occhi chiusi, “fino a sentirsi quercia
o almeno ghianda / eccola la ricetta per scasare dal cerchio”
perché “intorno alla città si gonfia / l’anello
degli scarti umani / è un horror vacui quotidiano // che plastiche
non colmeranno / barattoli non riempiranno / e stelle non imbianchiranno”.
I versi di Angiuli sanno farsi quindi anche poesia civile: “Intanto
il capitale impera / coi suoi monili luccicanti / che ficcano le mani
in tasca // nelle città delle vetrine / le rose fingono profumi
/ malgrado gli undicisettembre // la banconota è sull’altare
/ tra grigi incensi i sacerdoti / compiono sacrifici umani”.
Le prima sezione della silloge è intitolata “Puntini puntini”.
Ogni poesia si apre e si chiude con i punti di sospensione, a significare
che i versi attraversano un unicum di suggestioni e sentimenti. Nella
sezione sono presenti componimenti in lingua e nel dialetto di Valenzano,
il paese natale del poeta. Ma il lettore si immerge e non ne coglie
il distacco linguistico, così come capita a chi ascolta Angiuli
leggere i suoi versi. Il poeta opera abilmente una mescolanza di scelte
linguistiche, lessicali, contenutistiche, ontologiche. Resta ancorato
al suo retroterra culturale e territoriale, per capire meglio le dinamiche
e le strutture globalizzanti. Ma non ne resta spiazzato, è pronto
al confronto, all’incrocio tra diverse identità: contadina,
poetica, globale appunto: “ma io tengo un piede incollato al tempo
/ e l’altro altrove per fortuna / menomale così posso spassarmela
/ presso le botteghe del maestrale”.
La seconda sezione (“Pensieri di donna”) presenta un inventario
di personaggi letterari femminili che, attraverso Beatrice, Chiara,
Dulcinea, Felicita, Francesca, Ginevra, Isotta, Laura, Silvia, raggiungono
il culmine lirico-ironico in Maria. Una Maria cantata dantescamente:
“Ma chi me li dà e dove li cerco io / gli alfabeti giusti”
[…] per “Una che accumula i titoli da indossare / lungo
la processione di lunghissimi rosari / (esempio: delle Grazie della
Neve / d’Altomare della Scala della Fonte / della Grotta del Buoncammino
della Madia / magari pure del Cappero o della Melacotta)? // […]
Diamoci dunque del tu Maria / madre sorella e moglie del mio più
bel fratello / […] voglio solo chiamarti Maria aggiungendo / al
limite / magari / quasi / diciamo / un mezzo cosissia”. Sembra
di imbattersi in una religione laica, pagana, rivelata, monoteista e
panteista insieme, che eleva e redime.
La terza sezione dà il titolo all’intera raccolta (“Un
giorno l’altro”). Il primo verso di ogni poesia comincia
con “Mi faccio…”, seguito da un sostantivo, e termina
con “come dico io”. Angiuli costruisce la sua personale
visione delle cose partendo sempre dalla quotidianità. La poesia
gli consente di farsi un mondo a suo piacimento e riscattare il dolore.
È evidente la fiducia salvifica dell’autore nella parola,
attraverso la quale è possibile “scegliere dal mazzo delle
chiavi quella giusta / per aprire l’acqua senza farle male”.
Il corpo assume quindi rilevanza religiosa per mezzo della parola, così
il poeta può dire “mi faccio un giorno l’altro come
dico io / mi faccio una rima che finisca in dio”.
La quarta e ultima sezione (“Novene”) si compone di liriche
di uguale struttura metrica: tre terzine di tre novenari. Tutte cominciano
col medesimo incipit: un avverbio col prefisso in-. È questa
la sezione esplicitamente e chiaramente più impegnata. Il poeta
tesse la sua trama poetico-morale senza mai cedere al distacco e al
disincanto, perché è vero che “Intanto il sangue
degli agnelli / continua a imbrattare i giornali / e cola dai televisori”,
e “Invece la solitudine è / capace di parlarti in faccia
/ quando non puoi scansarne l’occhio” ma è possibile
“magari nascere di nuovo / come dal cardo il carboncello / o dal
letame il cicorione”, e “Inoltre ciò che conta è
l’alba” mentre “l’acacia si stropiccia gli occhi
/ che faccio che non faccio pensa / ma in petto già cova germogli”.
Il racconto di Angiuli parla di materia che va fuori da sé per
farsi spirito ed elevarsi in nome e per mezzo della poesia, dove vuole
una poesia intesa “come un raschio luminoso / sul volto opaco
del gran buio”.
Lino Angiuli, Un giorno l’altro (Aragno editore), 2005.