Elisabetta Liguori
"Specchiarsi al sud", su "Lecce-Ravenna. Andata e ritorno"
di Maurizio Monte

Demenzano
non esiste, eppure c’è. Grazie a questo western meridiano,
rapido quanto romanticamente lento, nostalgico, sebbene crudo come uno
schiaffo, Demenzano è qui, al sud del sud. D’accordo: molti
oggi parlano del sud, scrivono del sud, la letteratura contemporanea
si è fatta meridionalistica, ma il sud di Maurizio Monte non
è il solito sud, non un sud moderno, non precario, non turistico,
mai modaiolo, né tarantato. Il suo è sì, un sud
musicale, ma si tratta di un blues, un autentico blues, con repentini
colpi d’arma da fuoco che sibilano nell’aria, sfumacchiate
sacrosante, cazzotti, fendenti, sangue e sudore, sull’onda ritmica
di struggenti ballate.
Il suo è un sud antico quanto il desiderio, finalmente attraversato
da un’ironia nuova, on the train, praticamente elettrica, che
ricorda moltissimo quella del fumetto. Una narrazione, quella di Monte,
che svela in modo assolutamente personale, senza trucchi o maniera,
quello che accade oggi al sud, il suo sud, e che, risentendo fortemente
di quanto accaduto o non accaduto in passato, ben può delineare
le possibilità attuali e future. Il sud delle Occasioni, quindi,
quelle mancate e quelle colte al volo, ugualmente luminose, essenziali,
illusorie, gioiose.
Un sud che unisce passato e futuro.
Ho conosciuto Maurizio Monte proprio grazie alla sua gioia di scrivere.
Ha cercato il mio numero telefonico e l’ha trovato. Si è
presentato e mi ha detto: ho scritto un libro. Non gli ho creduto subito.
È stata poi la graduale condivisione di quel gesto d’ottimismo
puro - come è ogni libro che nasce, del resto, anche i più
tragici, anche i più disperati, perché ogni libro, comunque
sia, cerca lettori, compagni, reduci - a convincermi.
L’ho riconosciuto. Mi è parso essere un uomo innamorato
della parola e dal concetto di “Fortuna” e questo innamoramento
euforico e cieco vive nelle sue pagine. Anzi sopravvive, perché
il suo testo ha come tema principale l’istinto di sopravvivenza.
Si può raccontare la vita? Si può rincorrere e catturare
in un romanzo il Caso che la condiziona? L’elemento fortuito che
ci consente di resistere?
Monte sceglie un frammento di vita vera e lo pone nel bel mezzo della
linea ferroviaria Lecce – Ravenna. La verità autobiografica
che ne deriva è sia quella della nostalgia, quanto quella di
una risata perfetta. Una risata difficile ma contagiosa.
Verità? La verità conta poco quando si discute di narrativa,
anzi c’è proprio da chiedersi, così come Javeir
Marìas nei suoi libri e prima ancora di lui il filosofo romeno
Cioran, come sia possibile che da Cervantes in poi, e nei secoli a venire,
ci siano stati individui, - e ancora oggi pare che ce ne siano - desiderosi
di tuffarsi nella finzione di un libro, disposti ad appassionarsi a
vicende forse mai accadute, ad uomini forse mai nati, piuttosto che
sforzarsi di conoscere meglio quello che invece accade davvero - e il
materiale non manca - , la Cronaca, la Storia.
Quale il senso della finzione letteraria, quindi? In altre parole perché
scriviamo romanzi?
Monte con il suo libretto fulmineo forse ci racconta la verità,
forse no, ma non è questo che importa, quello che conta è
la rappresentazione del reale che ci offre, la sua forza; la possibilità,
più che il vero. L’autore tratteggia, infatti, i confini
di una terra oltremodo verosimile, che è sia quella del ricordo,
della quotidianità, sia quella della fantasia, della eventualità,
all’interno dei confini di una filosofia di vita tutta contadina,
che coglie il volto più gentile della vita, la sua Fortuna.
Le vicende che Monte descrive in queste pagine, se non sono accadute
davvero, potrebbero comunque esserlo; i personaggi che descrive, se
non sono uomini in carne e ossa, potrebbero comunque esserlo. Il sud
che ci racconta è un sud credibile, descritto nelle sue forme
più arcaiche, nelle sue tradizioni, nel suo cielo, nella sua
gastronomia; ma espresso anche dai suoi ultimi universitari in giro
per lo stivale, dai bulli di quartiere, dalle cellule impazzite di nuovi
cancri, da una ricchezza nuova, lucida e illusoria, dalla coda alle
poste per il pagamento delle bollette, dai mega concorsi pubblici senza
speranza, dalla vita in piazzetta o nei bar che fa il verso alle più
lontane metropoli.
Il bisogno fisico del ritorno alla propria terra, che fa da perno costante
alla narrazione, diventa così universalmente riconoscibile, accomunando
individui di tutte le età.
Monte ci riesce mescolando lavoro, donne, calcio e crimine, in un unico
composto miracoloso che sembra malta, utile alla costruzione di nuove
future umane fondamenta, a piccole e grandi rivoluzioni sociali, e lo
fa servendosi di una lingua divertente, di stilemi noti ma cangianti,
sanguigni, che ben lasciano intravedere il senso del cambiamento sociale
in corso.
Ma la vera forza di questa scrittura sta nei personaggi.
Tonino e Fedele sono i memorabili abitanti delle notti in quel di Ravenna;
Lucadavere che non prende mai il sole, Carmelino Mussolini dalla forza
sovraumana, Alfredo Sciagura e le sue beghe internazionali con la legge,
sono invece alcuni dei miti della nostalgia demenzanese. Questi caratteri
si combinano con maestria a personaggi della cronaca reale, da Beto
Barbas all’arbitro Moreno, così che mai nulla risulti soltanto
vero o semplicemente falso.
E poi il lavoro.
In un’epoca di precariato diffuso e mimato, Monte stupisce perché
sceglie di non narrare il lavoro che manca, l’ansia dell’instabilità,
il lamento del disoccupato, ma di cantare il lavoro che c’è,
dove c’è, e la sua immane fatica. Qui il lavoro diventa
una necessità, non una scelta. Lavorare si deve, il resto è
solo ingegno, casualità e adattamento. Così l’orizzonte
invece che contrarsi, destabilizzarsi, si amplia, si moltiplica.
Monte descrive uomini che si accontentano, senza arrendersi. Uomini
che lasciano fare al cielo, conservando il coraggio di fissare quella
fonte di luce e calore dritto nel suo centro infuocato, senza per questo
diventar ciechi.
La sua scrittura indica, quindi, un’altra strada possibile, oggi,
nonostante tutto, servendosi di una voce rauca, fuori dal coro che,
con guizzo sornione e malinconico, racconta l’autenticità
della vita, senza mai dimenticare quello che sarebbe potuto essere,
quello che sarebbe dovuto essere, quello che sarebbe giusto che fosse,
ma non è.
Mentre Demenzano, non vive, si specchia sospirando, Monte fissa lo specchio,
il suo specchio, l’immagine di se stesso. Non può farne
a meno, quindi ne scrive.
Mi pare che, come esordio, questo sia stentoreo, originalissimo e che
imponga la riflessione sui tempi che viviamo, tempi che si muovono in
avanti, pur dando l’idea di un immobilismo suicida, testardamente
euforico.
Sì. Io credo che Monte abbia scritto un romanzo. La storia di
un uomo che vuole resistere, farsi comprendere, riconoscere, rispettare,
così come ogni bestia sociale, ché in fondo, solo, o quasi,
sul vecchio litorale, tra ruderi di antiche civiltà, Ravenna,
Ostia o Bombay – è uguale - con Dei che si scrostano problemi
vecchi...( PierPaolo Pisolini – Una disperata vitalità
da Poesia in forma di rosa – Einaudi Torino),
Nello specchio di Monte si specchiano uomini, che assomigliano ad altri
uomini, che a loro volta sono i figli di altri uomini e di altri uomini
saranno i padri e così a seguire nel tempo del tempo.