Antonio Verri
La cultura dei tao
a Damiano Stefano

<<Era ancora luna chiara di gennaio,
giovane luna. Il freddo di quell’inverno tagliava le gambe. A casa
c’era poco. Voi figli uscivate coi pantaloni gonfi di fichi secchi,
le domeniche le passavamo con della pasta d’orzo, con bocconi che
m’ingegnavo d’insaporire per voi signorini seduti su sedie
altissime. Qualche volta cuocevo sciscèri di pollo, qualche altra
volta si ammazzava una pecora che stava male, poi c’era il pane
cotto e il lardo che tutto condiva…
Era questa la vita e voi avevate grandi occhi da birbanti…solo tu,
ecco, imbronciavi un po’ più spesso sui carrettini che da
me ti costruivo…
L’inverno fu tristissimo quell’anno. Non era ancora febbraio
ed era già bella e finita la scorta della monda.>>
La madre. La mar. La scorta della monda. Cioè, grossi
rami inutili ma soprattutto le giovani cime, a colpi di forbice e serracchio,
per impedire la crescita, per impedire quell’avanzo in armonia di
un albero bello sì, temerario sì, ma senza frutto.
<<Se no dà in furia>>, dice la mar. Col tremore
di chi di quella furia è madre.
Caprarica di Lecce, 30 Aprile 1986
* * *
Tanto ho appreso, altrettanto mi è stato insegnato. Mi è
stato insegnato, per esempio, che per molti fiori di giardino esiste un
corrispondente selvatico: e allora ho scoperto che mi era caro il profumo
del secondo dei due tipi di ciclamino, rose, mimose, margherite…
Mi è stato insegnato - ma poi l’ho sperimentato da me - che
vivendo, stando quanto più possibile lontano dal nulla, non si
può fare a meno della saggezza e del piacere curioso dei proverbi,
dei mille proverbi che dalla terra nascono; che i proverbi aprono al mondo,
a variegate realtà, che niente c’è di tanto misterioso,
di tanto affascinante, di tanto poetico, quanto un proverbio che si dipana
al punto giusto, al posto giusto; che attraverso i proverbi è tanto
magica, tanto plastica l’interpretazione del mondo che niente, nessuna
cosa sulla terra, mi è parsa, mi pare così naturale, così
saggia, così strapiena di candore…
Mi è stato anche insegnato, con ardore, ad apprezzare - ed io continuo
a guardare e amare con tale ardore… - poveri oggetti (stilizzati,
essenziali, ma solidi), situazioni le più umili, ma portate con
tale dignità, che serenità, buon senso, innamoramenti al
limite del pianto, sono cose che oggi io, figlio di questa cultura, posso
opporre a volte con tale incauta destrezza da rischiare di bruciare, con
legna d’ulivo, il sibilo lungo di una cultura millenaria…
Cambia, cambierà, di molto il volto della campagna, degli aggregati
umani, di interi paesi: è cambiato dal dopoguerra ad oggi, cambierà
ancora tra due, tre generazioni. E cambieranno naturalmente anche abitudini,
modi di lavoro, rapporti…, ecco, quello che non cambierà
mai sarà l’idea del dialogo con la terra che l’uomo
ha stabilito dal tempo dei tempi, il grosso respiro, il sibilo lungo che
si può udire solo di mattina, mirando nella vastità dei
campi, con accanto sentinelle silenziose gli alberi d’argento…
Ma torniamo al racconto, nostra sede, ad uno dei mille rivoli del racconto…al
padre che nella canna ricurva della pipa di pietra infila una di quelle
chiavi di cinquant’anni fa, la fa partire, ecco, adesso gira nell’aria,
la canna percorre il tondo della chiave, adesso basta un impercettibile
armonioso movimento della mano per far andare il tutto. Il padre, nell’eterna
sua magrezza, a capo chino, severo, somiglia un pìstico sognatore
di lucchi, un tenero rabdomante di chissà quali sotterranei giacimenti,
di chissà quali gore di distanza. Di rado bofonchia, è come
assorto nel suo gioco, con la nequizia, la permalosità di sempre.
Dal giro della chiave nasce un suono, un leggero crepitìo…
Le figlie sposate in altri paesi (quanto sono cambiate!) rientrano, fuori
è il venticinque aprile, San Marco, giorno della fiera, con i venditori
“napoletani” di Martina, di Ceglie, di Corato, che dal barese,
dal foggiano si riversano in questa come nelle altre fiere che in tutto
il meridione hanno scadenze regolate da cicli agricoli, attese con genuina
allegria, infinita baldanza, con intensità pari solo alle “straordinarie”
mercatanzie che verranno acquistate: lunghe teorie di attrezzi
da lavoro, finimenti, “quernamenti”, solidi utensili modellati
sul vecchio tipo, piatti per l’occasione vengono dichiarati “infrangibili”,
rosette per uno spruzzo a largo raggio, lo spargisale da campagna
ultima novità, e poi creta rozza, creta smaltata, cippi,
vasi, campanelli, chicche sonore dei buoni tempi andati, la dignità
solita di una baracca di cappelli, ogni anno al solito posto, sotto il
castello (anche i cappelli hanno un loro posto importante nella vita di
un paese… a cominciare da uno sfanciato, di piché, per finire
a quello che mettono nella cassa da morto: serve al congiunto per presentarsi
a Dio!), e ancora, cupeta e mostaccioli, tovaglie, corredo, polveri e
sementi per la campagna, Lattuga gigante, Spronelle di Corigliano, Cicorie
rizze; e poi, è un affarone il nuovissimo pupazzo gigante per far
bolle di sapone?
Bisogni, necessità per tutto l’anno, futilità le più
ingenue, cose da conservare sul comò, la scapece da consumare a
mezzogiorno, la faenza (bicchieri, tazze, chincaglierie) da mettere in
mostra nell’elegante credenza, grida, fatti, parole che dei fatti
trasmettono il suono… è questo il paese, è questa
la cultura del sibilo lungo!
Sta per arrivare la banda… C’è armonia, c’è
avventura, c’è completezza in tutto in quei posti. E quando
anche quest’armonia dovesse esse rosa in qualche punto, ecco, c’è
la madre riparatrice, ispiratrice, che aizza all’ardore, al furore
di parole… è lei la depositaria, è lei rappresentante
di questo mondo. E la stagione è l’inverno !
L’inverno era di quelli allegri, mai mesti, del pirichilli. Di
quelli che poi se vengono qualcosa dovrà succedere, qualche nato
importante, ribeglione, o qualche grande morto che tiene fino al freddo.
L’inverno del pirichilli. Freddo cioè, dal mangiarsi sul
serio anche cardilli. Stranamente freddo però, ecco, tanto da panegorisare
contrade, crocicchi, pianori, interi paesi che solo per l’occasione
bruciano bitume, resti di olive, trucioli, lievi napte di legno trinciato.
Tutto. Tutto.
Inverni del genere arrivano ogni due, tre generazioni, quando ormai i
ragazzi natanei non servono che loro stessi, esplodono di solito con l’accensione
dei fuochi di metà gennaio ma sono nell’aria fin dall’ultima
fiera di dicembre: li annuncia con testardo, sonante furore di parole,
l’òrico venditore dal pelo rosso, l’incomparabile mestatore,
molitore di segni e di linguaggi.
Arrivano così in questi strani posti questi strani inverni, come
falsi castighi, come cose nibate, indicibili, con lo stupore gelato che
sosta su case basse, che dà vita rotante ai vicoli, che cala nel
fondo dei frantoi, risale, mulinella nei secchi del pozzo, agli usci delle
porte; si perde poi sui terrazzi, su schegge di pietra che tengono, uno
sull’altro, solidi massi fuori squadro. Uno sull’altro. Più
su, più su…
-‘Na lusione, ‘na lusione, dice la mar che, con sciroppo di
lauro e di mortella, in inverni come questo, separava, puliva e preservava
i sonni, le parole, le iose di un figlio che segue l’abuso, che
vive per l’eccesso… La mar, la mar, che vede del figlio quel
che con lei è nato, che non sa di quell’altro che brucia
sperso negli inverni, di quell’altro dagli occhi spalancati dal
sogno, dalla voglia di farcela, per il padre, per lei…
Ecco, la mar dice del tempo cambiato, di quando la navetta correva legata
a bande di colore, ci ripete che vededi noi pilladori quel che con lei
è nato. Durano conti… Durerà quel nitore
di carta, o mammaniva, quel narrare brandea di teneri suasori?
Ecco, la mar m’abboffa come se dovesse nicare. Ma nicare non nicherà,
passerà come lento fiume il tempo – l’idea del tempo
che passa, del tempo cambiato, della navetta che corre a bande bianche
a bande di colore, la dette lei, lei l’ideò quando, intristita
dall’umido del cucinino, disse: “ Un tempo mettevano zorfo
in questi uncini! ”.
Ecco, la mar m’abboffa come se dovesse nicare…parole e suoni
avviticchiati alle cose che mi racconta, alle cose che mi avvicina col
solito decoro, parole che copre nei canestri - le parole del figlio a
zacchinetta – per farle maturare, per far colar quel croco che al
figlio assicuri la narrazione del santo pancro, l’oromìa,
l’olòfora, l’incanto; xhe questo che cuce sia palisma,
òrico, sonoro, dolce impanto.
Mar, o mar, nicare non nicherà, nicare proprio non nicherà!
Oh nive, oh nive bianca, oh tantanton de barba bianca!
- Figlio, sempre qualcosa mette ciglio. La mar. Mi dice ancora del tempo
cambiato - passano quadri piscatori - del tempo che oggi corre dietro
al fiscolo del niente… Lei, intanto, quando non balla tabacco secca
palate, ha mani sapienti, bianche cedono coperchi pressati nove volte…
e invece di boccoli di pane, frigge piccoli tesori del tempo dei suoi
tramonti rossi!
- La prima volta che vidi un treno gridai “ passa la tuzzuìa,
passa la tuzzuìa ”, e la campagna bianca rispose “
passa la tuzzuìa, passa la tuzzuìa ”, e la contrada
col nero dei camini “ passa la tuzzuìa, passa la tuzzuìa
”,e i miei morti e la mia casa, i miei viaggi e il mio biroccio,
e il mio vestito e il mio terrazzo, tutti insieme gridarono “ passa
la tuzzuìa, passa la tuzzuìa ”, e ancora “
passa la tuzzuìa, passa la tuzzuìa…! ”.
Ecco, dissi, ancora una volta prima di spegnere, con un suono grave che
ancora ho nelle orecchie: “ Sarà quel che sarà, ma
tu cerca… al mondo stiamo per cercare!”.
È vero, o mar, non sono ancora passato al libro vecchio, non riesco
a seguire il tuo “ quanto conta il saper fare ”, le parole,
soprattutto per me, sono un po’ come cirase (una tira l’altra),
febbraio è sempre un mese corto e amaro, le serpi sono ancora nascoste
e le rane non “cantano” ancora… ma sono il figlio della
storia del miglio e del mortaio, della camomilla dorata della sera, quello
che perdeva gli occhi su quel vecchio comò a casa della nonna,
con la campana del santo, due candelieri argentati (quelle cose che in
una casa arrivano non si sa come, da tutti considerate pregiate, si conservano
con orgoglio smisurato, diventano simbolo della famiglia, a volte; quelle
cose che restano negli occhi dei piccoli di casa anche quando la casa
non c’è più…), un centrino sul marmo, qualche
fiore la cui continua freschezza è l’effetto di un incanto…
Tutto fermo là, pissocerato, quasi un altare al dio del buon consiglio
che vive, con altri folletti, nel rosso fumante della terra appena “scapolata”…
Ma cercate dovunque, nelle foto qui dietro, altrove, ci deve essere quel
vecchio comò, ci deve essere quella vecchia credenza (il figlio,
nella nicchia accanto, rubava liquore giallo), una cassapanca essenziale
e capiente, il cassone dei fichi secchi, il saccone di fronze,
la monaca scaldaletto, la cucina sempre bianca, lo stipo di legno che
conservava ruote di creta che chiamavano piatti, la paglia nella pagliera,
l’“acchiattura” nella stanza accanto…
Ma è ancora inverno. Non è cambiato molto, o mar. Oggi girano
squadre per la monda come allora. Il paese intero è diviso in squadre,
come allora. Mi dicono che hanno le loro leggi, regole loro, ogni squadra
ha una sua carta di comportamento, di tenuta. A volte, o mar, sono così
necessarie alla vita del paese che mondare mondano un po’ tutto
(ogni squadra ha un suo declaro, ecco, e sfronzare gli eccessi…
non è soltanto un vezzo!). Comune a tutte, però, è
la proibizione del vino, del vino prima di salire: svettare l’olivo,
far sì che cresca in chioppa, non è cosa da niente!.
Solo qualche capomonda permissivo, distratto, nembrotico, istigatore,
a volte permette il vino, permette di danzare, il tsiritirò…
e allora l’albero è libertà, piacere e tentazione,
riso, sghignazzo, intolleranza… ecco, riprende con foga la navetta,
torna a rotar la tuzzuìa, ricresce, bòffolo, il sogno…
- Un tempo avevo occhi che tutto miravano. Tuo padre giovane…
Ma è sempre inverno: si attenua il dolore al ginocchio, tutte le
storie sono cariche di lusione che in altri posti un nonno favolista vendeva
a costo di decoro, storie intorno al tavolo, col fuoco, col padre appeso
al miracolo della radio, con la foto del figlio lontano bene in vista,
gli scampoli di una figlia sarta, uno specchio senza cornice, ad angolo,
interrogato chissà quante volte, chissà quante volte odiato…
Durano conti…! Parole nugose, cantilenanti, sogni, costruzioni
le più audaci (da far impallidire scrittori di professione), artifici,
fisime di smalto, possibili solo a terreno cherso, nella stagione morta,
o di sera quando il ragazzo figlio ascolta, risponde, sorride, anche se
il suo pensiero, lui stesso, è sulla ciminiera accanto, dove un
galletto, nella sua muta nettezza a mezz’aria, compie giri quasi
completi…
La letteratura di questa gente magra, dalle mani callose, è fatta
di fole e di angiolesse, di orchi benevoli, di tao che girano a mezz’aria,
di spiritelli biricchini, di donne di pasta cresciuta, di fibule, glimpe,
pènule, di purissimi cavalieri che di notte riposano sui tetti
bassi delle case bianche, o nelle corti, sotto la prèula,
accanto al gelsomino, o in stàbule di campagna sopra lettiere di
sarmenti, nella paglia (sono loro, i cavalieri, che di mattina prestissimo,
innaffiano d’argento gli olivi, intonano il colore delle margherite,
spargono a caso fiori di lampone…), succhiando liquirizia a pesciolini,
sciogliendo in bocca un tripizzo dolcissimo, facendo capriole inaudite,
lasciando biglietti a ragazze dai lunghi capelli, sacchetti di talleri
d’oro, colore per le guance, crinoline e merletti per gli anni a
venire…
La letteratura della mar era il narrare dei sogni il mattino dopo, degli
idoli suoi, i morti , che venivano a trovarla – fresca, mai turbata,
come fosse un altro sorriso, un altro abbraccio alla sua gente…
Ecco, durano i conti… e ci sarà sempre un povero
favolista a narrarvi di un cuecolo di neve che molto tempo fa dei ragazzi
festosi, goliardi, furenti, cominciarono ad appallottolare nella piazza
bianca per farlo poi rotolare, alimentandolo, per una discesa in paese:
tre mesi restò giù senza squagliarsi… Tutti tornarono.
Tutti. Meno Stefan. Stefan, cominciò a dire la mar, fu rapito dai
tao!
- Credeva fosse uno dei soliti pupazzi di neve, uno dei soliti pupi bianchi
che da ragazzi si fanno, e uscì di casa col passello per fornarne
gli occhi… Non l’ho più visto. Chissà…
Il portamento, l’allegria, tutto in lui poteva far innamorare un
tao, un lieve tao, un tao del freddo, uno di quei tao insolenti che saltellano
a mezz’aria mangiando girandole di neve, col corpo in piena luce…
- Tuo padre fece poi una guarnice ai suoi grossi occhi chiari,
e da allora aspetto…Oh, aspetto la tornata dei tao, il mio ribaldo!
La mar. La solita storia. La sentivo cento volte al giorno, ne sapevo
pieghe e accenti, ogni particolare, tutto quello che accadde, tutto quello
che un tempo rese possibile. Era ormai diventato tutto così assurdo,
così strano, così ingannevole, che sia io che lei, all’improvviso,
eravamo entrati come in un vortice nugoso, in una grande ruota bianca,
avvolti, per nostra stessa volontà, per tacito patto, nel manto
perlaceo di parole sonanti, favolose, antiche, cantilenanti…
- Come! Lasciarsi prendere dai tao!?!
La mar.
Parlava di un figlio che a vent’anni s’era allontanato da
casa gridando come un matto, correndo festoso verso il cueculo di
neve che stava per nascere, che già cominciava a rotolare…
Molte madri non videro i figli per tre giorni, quanto durò l’inusuale
appallottolamento. Poi tutti tornarono, meno lui. Meno Stefan. Stefan
non tornò.
- Il mio magnuccio! La mar.
I tao. Da quel momento la mar cominciò a parlare dei tao, s’inventò
i tao, questa specie di folletti predoni, di elfi colorati, che vivono
a mezz’aria, che così maleficamente sono entrati nella sua
vita… Poi s’inventò dell’altro. Del figlio in
stàbula, un casolare lontanissimo - ne vedeva il lumicino -, perso
a giocare a zacchinetta. Perso perdente.
Altro, tanto altro. Tante sorti del figlio s’inventò, tante
vite, tante possibili buone soluzioni, pensate per piacere di spasimo,
per quel follicolo di voluttà che ricopre - li argenta - i percorsi
di vane illusioni. La mar.
Era stato proprio un inverno tristissimo quello. L’inverno della
calata dei tao. Un inverno come pochi altri inverni. Così amaro!!!
Ecco. La cultura dei tao. La mar. La sua costante autorizzazione al furore,
il suo costante invito a fabulare, ad abusare della lingua… E tutto
ciò che entra tra le nostre righe è quel croco che non ha
vissuto, che ha sempre inseguito, di cui ci ha sempre parlato, e che ora
per noi è suono, armonia nascosta, nive, nive farinosa…
I tao ci sono sempre in un paese. I nostri paesi ne sono strapieni. Esistono
anche per questo i campanili nei paesi.
L’idea del campanile arriva quando la gente è esasperata,
quando non ce la fa più a sopportare i tao. Formelle su formelle,
cotto su cotto - in un silenzio operoso – la gente alza il campanile
per sorprendere i tao, per piombare di sorpresa sui tao come sempre intenti
a biffarsi dall’alto le zone in cui predare.
Bisogna dire, però, che i tao sono dei predoni fascinosi, a volte
quasi necessari… guardate la mar, per esempio, lei è ormai
al punto che coi tao ci gioca, azzarda, retrocede, favoleggia, lei ormai
è di quel mondo a mezz’aria, non esiste altro mondo per la
mar – dapprima, un po’ come tutti qua in paese, covò
il campanile, con furia, con disperazione, poi tutto cambiò, cominciò
ad usare, a viverci nel campanile, ad un certo punto cominciò,
con gessi neri, a scrivere sui muri del campanile, dapprima strofette
al figlio, poi le canzoni della giovinezza, le contra che lei cantava
così bene, i cori d’inverno tra gli ulivi, ma anche scioglilingua
sui tao, descrizione dei loro giochi, bagatelle…
Andavano in aria i tao, alle angiolesse obìte, ai transiti dei
loro padri elfi, in oblivione completa, con lo stupore dell’ebbro,
galoppando ossessi sul vapore, sui tetti color pigna, sulle madri di Robinia,
sulle madri dell’oro di coppella…
- Un tempo avevo occhi che tutto miravano. Tuo padre giovane… La
mar. Quelle che lei mirava sono poi cose che hanno fatto la mia vita.
Quando stavo con lei, figlio com’ero di una dea dell’aria,
quando camminavo con lei, non c’era necessità di sprecar
parole, erano gli occhi a raccontare, era negli occhi che riuscivamo a
fermare, in un attimo di mille parole, gli eccessi, gli scoppi, lo smorire,
la meraviglia… Non esisteva niente allora, niente dei travagli di
tanti giorni neri: lei era all’improvviso una lieve festuca dorata,
era in quella fibula d’oro giallo al petto, nel regno sempre bianco
della tuzzuìa, nel lumicino lontano delle fortune che ogni sera
tremolavano in una stàbula d’uomini persi a zacchinetta,
nel tripizzo che in bocca squagliava, nelle margheritine di camomilla,
nelle fresie in alto sul portone…
Chissà se poi la mar avrebbe, in realtà, voluto una vita
diversa!
- ‘Na lusione, ‘na lusione, mi pare di sentirla ancora adesso.
- Sotto la neve il pane, mi ripeteva. A me piaceva sentire quelle cinque
parole una dietro l’altra, e domandavo, domandavo continuamente.
Come?, il pane sotto la neve? Certo, diceva lei, con voce di velluto,
il pane sotto la neve, proprio così, il pane sotto la neve: quando
c’è neve - tanto meglio se è farinosa - che copre
un campo seminato, il seme è costretto a lavorare sotto, il raccolto
è rassicurato.
Il ragazzo continuava a chiedere con avidità, la mar cominciava
con le sue storie, i suoi “segreti”. Per niente altro c’era
posto. Tutto intorno la vita lievitava.
La sera prima di Sant’Antonio andavo dal fornaio - la mar -, ordinavo
un canestro di buon pane, poi la mattina di buon’ora lo portavo
in chiesa, lo distribuivo… Non mettere mai il pane sottosopra, porta
lutti, porta disgrazie… Potevi vincere, con una cotta di pane fresco,
persino la Madonna all’asta… Prima di un matrimonio si faceva
doppia cotta di pane, allora i matrimoni avevano il pranzo in casa…
Anche i tao erano come storditi quando in paese si faceva il pane. Sostavano
a gruppi sul tetto del forno, volavano così in basso che a volte
urtavano i galletti sui camini; qualcuno con improvvisa spavalderia, approfittando
della rapida apertura del forno, vi si infilava dentro, nelle fiamme,
attirato dal pane che cuoceva: se ne usciva u po’ frastornato, stravolto,
rosso, ma…quattro passi ed era in volo!
Parlava, la mar, di freddo, di neve, mi raccontava la storia dei tre giorni
della merla… io ci legavo il pane (non sapevo pensare ad altro,
ormai), il panetto di lievito acido che il fornaio conservava per la famiglia
del giorno dopo, la màttira di legno chiaro, le tàule
con costati, senza costati, il miracolo, la meraviglia della pasta che
cresceva…
I racconti continuavano. Una grande fame ma una grandissima dignità.
Le generazioni di gatti tutti somiglianti. Il teatro che cinquant’anni
fa approdò in paese, la fabbrica di tabacchi ne fu il palco, con
le attrici piene di trini e pizzi, colli lunghi… “e noi non
riuscivamo a tenere in casa i nostri ragazzi”! Le storie di gelosia,
la gente magra, le case basse, la vita essenziale; anche le morti erano
importanti, se il morto era un ragazzo o una ragazza, era preso dai tao,
diventava un tao perfetto, uno di quei tao di meraviglia… Era questa
la vita di un paese!
Ma il favolista, di casa in casa, comincia a narrare di un essere legendario,
selvaggio, uno spirito silvano dei campi, dei paesi, che è un tutt’uno
con alberi, foglie, boschi, un orco benevolo, uno spiritello biricchino,
bizzarro, lieto e allegro anche quando dovrebbe essere triste; mangiaparole,
mangiasuoni, un po’ buffone, mai sazio, mai saggio. Questo essere
è il Bel Tempo. Arriva allora la Primavera. Le rane cantano la
fine dell’inverno; son fuori, inoffensive, le natrici d’acqua;
le mulacchione, le ragazze inesplose, rosse, continuando raffinate
e lievi trame di ricamo, aspettano il loro ambasciatore (“arriva
l’ambasciatore, oilì oilà, a cercare la più
bella”), il loro principe azzurro. Se lo immaginano in divisa…
Ed eccolo che arriva, per le più fortunate: è un musicante
del Gran Concerto di Gioia, è un postino aitante che lavora al
nord, è un carabiniere che tornando a casa lucida scarpe e divisa…
È in arrivo anche la banda, i tao saltellano come impazziti sulle
berrette dei musicanti che continuano a sbandare, il cielo è più
basso, le stelle lucenti (tendono ad offuscarsi solo quando in paese arriva
la cassarmonica e gli occhi brillano e si corre verso il centro illuminato…),
i ragazzi come intontiti. Arriva l venditore di stoffa inglese, di lino,
di percalla, arriva l'incantato venditore di grattate di neve, ma quello
che più si corteggia, che più incuriosisce è il venditore
ce in un carro a vari ripiani, a cassetti, vende di tutto, le cose più
varie, le più belle…
I tao continuano allegramente a saltellare, la mar è con gli occhi
alla cima della sua lenta torre, cotto su cotto, formella su formella;
il padre porta su, con la solita caparbietà, altre cime, quelle
della vita d’orto: ci lavora fin dall’alba, dispone in certo
modo le canne, realizza, sempre più assorto, sue geometrie, costruzioni
misteriose, oscure. Il cueculo è… ormai sciolto.
Ha tenuto tre mesi, però. A squagliarlo non è stato il tepore
di uno sbadiglio, né lo scotimento leggero dei seni della madre
terra, è stato l’avvolgente e caldo agitatore delle ali dei
tao bianchi che prima di tutti avevano captato il magico potere della
palla bianca, perfetta, immensa, come una sfida babelica, l’enorme
sfida (saldare nel cueculo le spezzature di una lingua, le variegate
imperfezioni terrene…) portata da cinque irrisolti mestatori d’incanti
che anche stavolta avevano sospettato un cueculo tondo, grosso,
immutabile…: la mar - ispiratrice di cotte, di furore – che
in inverni come questo aveva tutto previsto, tutto con cenere ideato,
aspetta a casa col pan cotto, col boldone!
Girano, vorticano, continuamente i tao in questa cultura, in queste contrade.
A mezz’aria. Sono loro i regolatori di questa cultura. Sono loro
che, con piroette profumate, sovrintendono agli oggetti, agli attrezzi
da lavoro, ai pianti per la figlia che si sposa, alle nenie, alle ballate,
alle contra dei trovieri di paese, sono loro che regolano i discorsi,
che pizzicano nel sonno, che istigano alle cose insensate, al ridere sfrenato,
loro che vivono, si rotolano nella marza preparata per l’innesto,
loro che hanno inventato il cane dello Scialla che fece cento chilometri
per un bicchiere di vino, la Peppa Landa che compra galline cadenti, il
magico lumicino della Lucerna di Iacca, il Morso che ti fa ballare, i
giorni della Vecchia, le acchiature in ogni angolo…
Sono i tao regolatori che presiedono agli oggetti, alle situazioni, i
momenti di vita che troverete illustrati nel volume. Oggetti, situazioni,
momenti che nella loro armonia, nella loro dimensione, nella loro completezza
assoluta, vivono anche dell’inaudito che continuamente generano…:
e per noi è sempre più chiaro che se le cose hanno tutte
un nome, una loro ironia, loro virtù, paradossi, bufferie da tao,
è con una lingua che comprenda tutte le lingue che parleremo del
sogno, che scriveremo del sogno. Meglio dei sogni, visto che altri balzeranno,
altri rotoleranno, piscatori, tra le righe.
(scelta di termini dal) DIZIONARIETTO
dei termini magici, nuovi o non comuni allegato da A. Verri al testo sui
Tao
[il] CANE DELLO SCIALLA, LA PEPPA LANDA, LA LUCERNA DI LACCA...: non
sono soltanto storie, assolutamente!: sono dimensioni fantastiche, suoni
antichi, voci antiche e magiche di un paese e della sua gente.
CONTI: sta per racconti.
CONTRA, [le]: canzoni da contrasto amoroso. Le sentiamo cantare
ancora a Borgagne (Le), da due vecchie contadine; il profumo è
medievale, di campagna...
COTTA [di pane]: più o meno determinata dalla quantità,
di grano o di orzo, impiegata. Una cotta, di solito, è
sugli ottanta chili.
CUECULO: per palla, cosa tonda; qui palla magica, bianca...
DECLARO: per dizionario, riandando a fra' Senisio.
GRATTATE [di neve]: un blocco di ghiaccio in una cassetta piena di paglia,
un aggeggio che, grattando leggermente il ghiaccio, si riempie di neve
farinosa, un bicchiere pronto a ricevere i cristalli di neve, sono queste
le grattate. Ce'ra poi un venditore...
LIBRO VECCHIO [passare al]: espressione popolare [salentina?] per dire
che hai concepito e realizzato qualcosa, che da te è nato qualcosa:
la nuova nascita, allora, di passare al libro vecchio,
l'attenzione, è per euql qualcosa.
LUCCO: anche s eun qualsiasi dizionario vi darà significato diverso,
qui è usato, ha significato di cosa magica, lucente, impenetrabile.
MARZA: quello strato umido, sottilissimo, tra la corteccia e il legno.
La marza è indispensabile per l'innesto <<a pezza>>.
MATTIRA: grossa madia a forma di barca, nel cui fondo si lavora la farinia.
MERLA, [i tre giorni della]: gli ultimi tre giorni di gennaio, freddissimi,
tre giorni che gennaio prese in prestito da febbraio per punire il merlo
troppo sicuro di sé.
MULACCHIONA: (non ci stancheremo mai di dire che per noi il plurale è
mulacchione), ragazza tonda, passionale, strapiena di carica inesplosa.
C'entra la luna...
NATRICI: serpi d'acqua; in questi posti girano, d'estate, intorno a pozzi
e cisterne.
NEMBROTICO: d Nembroth, istigatore all'impresa della torre di
Babele.
NIBATO: splendido nevoso, da nubo-is o da nix-nivis.
NICARE: nevicare.
NUGOSO: di scherzo, di celia.
PALATA: massa di fichi che si seccherà tra <<pale>>.
PANE COTTO: è pane che si fa bollire insieme a foglie di alloro,
prezzemolo e ad un pizzico di peperoncino. Era il piatto rapido saporitissimo,
dei contadini. Si mangiava soprattutto d'inverno,a metà mattina,
tre, quattro ore prima del pranzo vero e proprio.
PANEGORISARE: sostentare con solo pane.
PESCIOLINI, (liquirizia a): forme dorate di un tempo; non la chiamavano
più liquirizia ma pesciolini!
PIRICHILLI - è un termine di un detto, <<pirichilli ca mangia
li cardilli>>, ascoltato in Martano (Le), qui usato come folletto
di neve.
PREULA: è la vite da orto fatta allungare su delle canne incrociate.
SCISCERI: ventriglio dei polli e degli uccelli.
TANTANTON DE BARBA BIANCA: il proverbio è questo <<Sant'Antonio
dalla barba bianca / se non piove la neve norì manca>>; è
il cuore dell'inverno, il 17 gennaio.
TAO: folletti dell'aria, della mezz'aria anzi; c'è dentro il salentino
mao, il veneto bao, tanto altro...
TRIPIZZO: dolce che si scioglie in bocca rapidamente.
TSIRITRO': termine dal ritornello di una ballata popolare greca, legatop
all'uva, al vino, alla vita allegra.
TUZZUIA: grande cavalletta verde; i danni non si contavano, la gente
se la ricorda con terrore.
ZORFO: sta per zolfo, e uncini sta per fiammiferi.
(da "La cultura contadina", catalogo di una mostra fotografica,
Distretto scolastico 42, Assessorato alla Pubblica Istruzione della Regione
Puglia,maggio 1986,
versione uscita su Quaderni del Fondo Alberto Moravia, Numero 1, Anno
2002, con scelta dai termini del Dizionarietto)
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